Sono nata a San Giorgio del Sannio (BN) il 20 settembre del 1927, da Nicola Bosco e Maria Mascolino, con noi viveva anche la nonna paterna Carolina Pascucci vedova Bosco. Mio padre era impiegato nel ramo amministrativo presso la locale agenzia dei Monopoli di stato, mia madre, che a casa sua esercitava l’attività di sarta, suddivideva il suo tempo in diverse attività: quando aveva completato le faccende domestiche si dedicava un po’ all’orto, agli animali da cortile e alla capretta, solo dopo pranzo eseguiva qualche lavoretto di cucito, di ricamo, coi ferri o con l’uncinetto. Se io avevo finito i compiti venivo coinvolta in quelle attività.
Con noi viveva anche la nonna paterna Carolina Pascucci vedova Bosco, mia nonna da piccola era stata in collegio presso le suore della Visitazione per cui aveva studiato buona parte della Bibbia a memoria che a settant’anni ricordava perfettamente, infatti, di sera sedute davanti al camino, dove ardeva una fiamma scoppiettante, lei declamava la Genesi, l’Esodo o qualche poesia del Metastasio e a mia richiesta mi raccontava una fiaba. Era talmente brava nel raccontare le storie con tanti particolari che a me sembrava di assistere a quegli avvenimenti.
Ho frequentato la scuola elementare a Ginestra, frazione di San Giorgio (BN). A quei tempi non c’era ancora la scuola media, così feci l’esame di ammissione al Ginnasio Pietro Giannone di Benevento.
Persi un anno di scuola, in quinta elementare, perché ebbi un ascesso appendicolare per cui dovetti essere operata di urgenza all’Ospedale “Fate bene Fratelli” di Benevento.
A quei tempi, in Italia non si usavano ancora gli antibiotici, si utilizzavano i sulfamidici che non furono sufficienti a evitare un inizio di peritonite per cui fui sottoposta a un secondo intervento.
Nel 1939 frequentai il primo ginnasio, ospite a Benevento della famiglia del fratello di mia nonna, che era farmacista. Il sabato tornavo a casa con un autobus sgangherato e rientravo il lunedì mattina successivo.
In quel periodo ebbi molte difficoltà perché avrei dovuto partecipare al sabato fascista con la mia classe e perciò dovetti assicurare alle autorità preposte che avrei partecipato a quelle attività ludiche nel mio paese.
Nel 1940 per andare a scuola viaggiai tutti i giorni tra S.Giorgio e Benevento perché mio padre era stato richiamato alle armi e a Benevento cominciarono i primi bombardamenti da parte degli alleati e così mamma e nonna mi vollero a casa; erano solo 12 kilometri ma il mezzo era in pessime condizioni e spesso ci lasciava per strada.
Dopo l’armistizio dell’8/9/43 Benevento era un cumulo di macerie, il Duomo abbattuto, le cui bellissime porte bronzee furono trafugate in Germania, il ponte del “Vanvitelli” sul Calore fu abbattuto, così pure la stazione ferroviaria e buona parte della città antica, per fortuna fu risparmiato l’Arco di Traiano e il bellissimo Teatro romano ancora oggi agibile. Anche le scuole subirono danni importanti e non furono riaperte, per cui dovetti prepararmi privatamente per gli esami di quinta ginnasiale. Intanto ci fu lo sbarco in Sicilia degli alleati e nella nostra zona cominciammo a subire le rappresaglie dei Tedeschi che erano accampati in un nostro terreno dove c’era un oliveto impiantato da pochi anni.
Spesso i soldati venivano a chiedere cibo e portare biancheria da lavare, quando decisero di andare via decapitarono tutte le nostre piante per mimetizzarsi.
Tutti i giorni verso le 14 passavano le fortezze volanti degli alleati per inseguire i Tedeschi che si erano attestati a Monte Cassino.
L’anno scolastico 44-45 le scuole furono riaperte e così iniziai il primo anno di Liceo classico.
Arrivarono gli americani con il loro esercito multietnico e si stabilirono nel palazzo del Barone Dell’Aquila a 200 m. da casa nostra. C’era molta euforia nella gente, la guerra era finita per noi, anche se la radio continuava a diffondere tragiche notizie. La mia fu un’adolescenza molto triste sia per gli eventi storici sia per la severità dei miei genitori, poiché essendo figlia unica, accentravano tutta la loro attenzione su di me.
Finito il liceo, mi iscrissi alla facoltà di Farmacia della Sapienza a Roma, poi nel 49 mi fidanzai con Antonio Mastromarino studente di Medicina e mi trasferii a Napoli, dove nel 1953 mi laureai con la tesi: “Il rame in terapia e in tossicologia”.
Nel 1954 ci trasferimmo a Roma anche con la nonna novantenne. Io trovai lavoro presso la farmacia “Nagar” a Tiburtino III, quartiere voluto dal fascismo per ospitare i carcerati che avevano usufruito delle frequenti amnistie.
All’inizio non fu facile per me, che venivo da un piccolo centro del meridione, stabilire un buon rapporto con persone che avevano un passato poco sereno, nella farmacia dove io lavoravo veniva anche la famiglia Pelosi il cui figlio fu implicato nel delitto Pasolini.
Col passare del tempo le cose migliorarono, col sorriso e la disponibilità ottenni il loro rispetto e la loro amicizia.
Nel 1955 il Ministero dell’Agricoltura, per incrementare la coltivazione delle erbe medicinali istituì un corso di Erboristeria presso la facoltà di farmacia, con il benestare del dott. Nagar lo frequentai e a settembre del 1955 conseguii il diploma. A Roma abitavamo sulla via Appia nuova di fronte al Campo del Golf. Per andare in farmacia dovevo prendere il tram Capannelle, l’11 a via Umberto I e il 409 a Portonaccio, quindi trascorrevo 8 ore in Farmacia e, se andava bene, 6 ore nei mezzi dove ho letto tanti libri.
Nel 1957, dopo tante vicissitudini dolorose e tristi, il mio fidanzato laureatosi in medicina, si trasferì anche lui a Roma e cominciò a lavorare come volontario all’Ospedale San Giovanni dove poi fu assunto dopo circa sei mesi.
L’8 giugno dello stesso anno ci sposammo rimanendo a casa dei miei genitori.
Il 4 luglio del 1958 fummo allietati dalla nascita della nostra prima figlia Carla.
A Natale con l’aiuto dei miei genitori, lasciammo la villetta sull’Appia e andammo ad abitare in un comodo appartamento all’Appio Latino contraendo un mutuo.
Mio padre lavorava sempre ai Monopoli, io in farmacia e mamma si occupava della bambina e della nonna.
Nel gennaio del 1960 nacque Cinzia e così mio marito volle che io rimanessi a casa perché mamma non avrebbe potuto badare a due bambine e a una persona anziana. Il 5 novembre del 1961 nacque Angelo e il 1 novembre del 1962 nacque Paolo.
Quindi avevamo 4 figli e con 5 adulti eravamo una famiglia di 9 persone per cui si rese necessario cercare un appartamento più grande. Per fortuna mio marito da qualche anno era effettivo in ospedale e aveva raggiunto il punteggio per esercitare anche come medico di base, infatti, aprì l’ambulatorio in via dei Salesiani.
Nel febbraio del 1964 ci trasferimmo nella nuova casa costituita da 2 appartamenti attigui con un grande terrazzo al 5° piano di uno stabile situato nei pressi del parco degli Acquedotti.
A questo punto visto che i bambini cominciavano ad andare a scuola anche io cercai di inserirmi di nuovo nel mondo del lavoro .
In quei tempi c’era carenza di insegnanti e nel 1964 mi fu possibile entrare nell’Istituto Gianelli, una scuola privata gestita dalle Suore di Maria SS dell’Orto dove insegnai Scienze, Chimica e Geografia nell’Istituto Magistrale.
Comprammo una 500 e così la mattina, con i miei quattro bambini andavamo a scuola e dato che la Preside mi aveva fatto un orario ad hoc, alle ore13 tornavamo tutti insieme a casa. Mia madre ci faceva trovare il pranzo pronto e quando arrivava mio marito si pranzava e dopo aver riassettato, Carla che frequentava la prima elementare faceva i suoi compiti io preparavo la lezione per il giorno successivo e i piccoli giocavano sul terrazzo e spesso, se il tempo era bello, il nonno li conduceva al Parco degli Acquedotti.
Nel settembre del 1968, mentre era in vacanza al paese natio, assistita dai miei genitori venne a mancare la nonna quasi centenaria.
Nel 1974 il Ministero della Pubblica Istruzione istituì un corso abilitante per mettere ordine nella scuola e selezionare insegnanti idonei alle diverse classi d’insegnamento, io lo frequentai e nel 1976 consegui l’abilitazione per insegnare scienze naturali, chimica e geografia nelle scuole medie superiori.
Tutto sembrava filare alla perfezione, i ragazzi frequentavano la scuola con profitto, Carla conseguì la maturità e s’iscrisse a medicina, gli altri proseguivano e gradualmente anche loro superarono felicemente gli esami dell’ultimo anno.
Cinzia si iscrisse a matematica e tutt’ora insegna in un Liceo, Angelo è medico oculista e Paolo è ingegnere elettronico. Carla nel 1981 si sposò con Mauro, un caro ragazzo ingegnere meccanico che mio marito conosceva fin da adolescente che ci hanno dato due splendide nipotine. Nel 1987 si sposò anche Cinzia con Sergio anche lui ingegnere e pure loro ci hanno dato due bei nipoti: Giovanni e Antonella.
Per la nostra famiglia finì la tranquillità, infatti nel 1989 mio marito si ammalò di microcitoma polmonare, uno dei tumori più aggressivi e, dopo otto viaggi della speranza in Francia all’Ospedale Roussì di Parigi e l’alternarsi di speranze e delusioni, il primo giugno del 1991, quando avrebbe potuto godere la sua famiglia e il frutto del suo lavoro, morì.
Intanto si erano sposati anche Angelo con Patrizia e Paolo con Maria Grazia, donandoci rispettivamente altri nipoti: Antonello, Davide, Letizia e Federica e Luca.
I miei genitori traumatizzati dalla morte di mio marito persero la loro autonomia e fui costretta a farmi aiutare notte e giorno da un’infermiera fissa.
A marzo del 1993 venne a mancare mamma e a ferragosto papà.
Io a questo punto mi sentii disorientata e volli rimanere in campagna perché non me la sentivo di ritornare a Roma nella grande casa vuota. A novembre del 1994 vennero a San Giorgio Carla e Mauro e m’indussero a tornare a Roma.
Angelo ritenne opportuno farmi fare una serie di accertamenti e così seppi di essere affetta da fibrillazione atriale. Il 1 dicembre tornando a casa dopo aver fatto il doppler dei vasi epiaortici , Carla mi dovette aiutare per raggiungere la mia camera da letto e si rese conto che avevo tutto il lato sinistro paralizzato, chiamò subito il fratello che mi prestò le prime cure e, dopo circa 10 ore, ripresi coscienza e mi dissero che avevo avuto una ischemia temporanea causata dalla fibrillazione. Angelo mi fece ricoverare alla clinica dove lui lavora per mettere a punto la cura. Superato questo periodo critico, decisi che avrei dovuto crearmi degli interessi a Roma vicino ai miei figli e ai nipoti che erano diventati nove.
Quindi m’iscrissi alla FEDERSPEV che raccoglie anche le vedove dei sanitari, all’AMMI che unisce le mogli dei medici e all’ANEB che è un’associazione di insegnanti. Inoltre cominciai a partecipare a molte conferenze tra cui quelle presso l’Accademia Dei Lincei e feci l’abbonamento a teatro.
Nel 1996 all’Accademia di storia di arte sanitaria presso l’Ospedale Santo Spirito fu istituito un Master in Fitomedicina, mi iscrissi, lo frequentai assiduamente e, nel gennaio del 1999, conseguii il Master discutendo una tesi sull’argomento: la Fitoterapia dalla preistoria ai nostri giorni.
Intanto avevo cominciato a collaborare con il giornale dell’EMPAM curando una rubrica sulle piante medicinali. Adesso frequento il gruppo della terza età in parrocchia, il corso di ginnastica Feldenkrais, un metodo che permette di rilassarsi mettendo in relazione il cervello con i muscoli, frequento anche il laboratorio parrocchiale realizzando piccoli lavoretti e seguo anche un corso per utilizzare al meglio il Computer.
Quindi la mia giornata è piena ma trovo sempre il tempo per incoraggiare chi è meno fortunato di me e per andare in Chiesa a ringraziare il Signore per tutto ciò che ho avuto nella mia vita.
Roma 24/10/10 Carolina Bosco Mastromarino
La mia giovinezza
Sono nata e cresciuta in campagna a S.Giorgio del Sannio in provincia di Benevento in una casa, costruita nel 1872 dal nonno di mia nonna, che è stata poi abbattuta perché danneggiata dall’ultimo terremoto e le cui macerie sono ancora visibili vicino alla casa nuova dove andiamo in vacanza.
Quando ero piccina mi divertivo con i figli del colono, Vilarmina che aveva un anno meno di me, Paolo e Antonio più piccoli, giocavamo a campana o ad arrampicarci sugli alberi; dietro la casa c’era un vecchio albero di fico con il tronco tanto inclinato che ci si poteva salire sopra quasi camminando, facevamo la gara vinceva chi riusciva a salire di corsa fino alla biforcazione dei rami senza cadere.
In primavera dietro la casa, c’era sempre un campo di lupini pronti per il sovescio che ondeggiavano al vento come un mare verde tenero e vellutato. Quando riuscivo a vincere le resistenze di mia madre con i figli del colono andavamo a correre fra i lupini che erano alti più di noi; le infiorescenze bianche dal profumo un po’ amaro ci colpivano il viso; avevamo l’impressione di correre nel mare che non avevamo ancora visto; i fiori bianchi per noi erano le creste delle onde, dopo la corsa cadevamo sul verde tappeto esausti ma felici. Il colono ci rimproverava perché correndo fra le piante, alte più di un metro, le facevamo rompere rendendo il sovescio più faticoso.
A quei tempi dato che, vivendo in campagna, ancora non avevamo l’acqua corrente, per le normali necessità della casa c’era il pozzo ma, l’acqua da bere bisognava andare a prenderla, con un’anfora, ad una sorgente che distava circa 400 m da casa, ne avevamo anche una da 2 litri che, insieme agli altri bambini andavo a riempire io.
Mi divertivo molto anche ad ascoltare le fiabe che la mia nonna paterna, che viveva con noi, sapeva raccontare così bene da farmi sentire al centro della scena, sedute vicino al camino,dove scoppiettava un bel fuoco, alla fioca luce di un lume a petrolio, era per me come vedere un film, a quei tempi, non essendoci un cinematografo nel nostro paese, io ne avevo visto solo qualcuno in piazza in occasione della festa padronale.
La nonna Carolina mi declamava con enfasi anche passi della Bibbia e poesie del Metastasio, che aveva studiato quando andava a scuola dalle suore.
Mi piaceva molto leggere, leggevo tutto quello che trovavo a portata di mano. Per me era motivo di gioia sapere che sarebbe venuto a trovarci il nonno materno, che viveva a Roma con un fratello di mia madre,egli metteva da parte le copie del Corriere dei piccoli che i miei cugini avevano letto e me le portava,io letteralmente le divoravo A quei tempi una ragazzina doveva imparare a cucire, ricamare, lavorare con i ferri e l’uncinetto. Così mamma mi stimolava a fare vestitini alla bambola.
Io avevo due bambole una molto bella che mio nonno mi aveva portato da Roma con la quale non potevo giocare perché l’avrei rovinata, stava sempre nella grande scatola in cui me la aveva portata, periodicamente potevo guardarla,aveva il viso di porcellana con gli occhi che si chiudevano e capelli ricci a boccoli, l’altra bambola era alta la metà, aveva il viso di stoffa, i capelli appiccicati alla testa e gli occhi fissi, mamma l’aveva comprata alla fiera del paese per farmi giocare, anche se non mi piaceva molto le facevo tanti vestiti e cappelli con la falda come quelli delle signore dei figurini di moda.
Finita la scuola elementare per frequentare il primo ginnasio dovetti andare ad abitare a Benevento presso la bisnonna Vincenza,madre di mia nonna che viveva con il figlio farmacista il quale il sabato pomeriggio mi invitava ad andare a passeggio con lui fuori città, lo zio mi insegnava a riconoscere le piante medicinali che vegetavano lungo l’argine della strada e che lui usava nella sua pratica giornaliera. Tutto ciò certamente ha contribuito a determinare le mie scelte professionali.
Purtroppo la seconda guerra mondiale era una realtà e gli alleati cominciarono a bombardare l’Italia che faceva parte dell’asse Roma-Berlino e fu la volta anche di Benevento così molto spesso di notte suonava l’allarme e ci dovevamo alzare per rifugiarci ai piani bassi del palazzo perché non c’erano veri e propri rifuggi.
Intanto papà fu richiamato alle armi e mandato in Liguria al confine con la Francia. Mamma decise che era preferibile che io tornassi a casa, a scuola sarei andata con altre quattro ragazze, con la carrozza della famiglia di due di loro, così tutte le mattine pioggia o vento alle sette si partiva, impiegavamo circa un’ora per percorrere 12 Km, d’inverno arrivavamo intirizzite a scuola,in primavera andava meglio. L’anno successivo decidemmo che, per andare a scuola avrei preso un autobus che veniva dalla provincia di Avellino, mi resi subito conto che quando arrivava al mio paese era già pieno e noi studenti riuscivamo ad entrare a stento, infatti stavamo pigiati come acciughe. Dato che tutti i mezzi in buone condizioni erano stati requisiti a causa della guerra, quel mezzo era così sgangherato che andava avanti a fatica.
Un giorno, circa a metà strada, alla fine di una discesa, detta variante perché era stata costruita per accorciare il percorso della via Appia che girava intorno ad una collinetta, si bucò la ruota anteriore destra, l’auto s’inclinò sul fianco destro adagiandosi nella scarpata. Si ruppero tutti i vetri della fiancata destra, molti passeggeri riportarono ferite per fortuna non gravi, io ero aggrappata ad un sedile e me la cavai con molta paura e qualche contusione. Ci furono molte difficoltà per uscire dal mezzo, i contadini che lavoravano nelle vicinanze accorsero e si adoperarono per aiutarci. Quel giorno non andai a scuola e tornai a casa a piedi.
Intanto la guerra andava avanti, tutti i giorni, con il giornale radio preceduto da una musica marziale ci propinavano le notizie manipolate sui nostri successi in Africa.Tutti i sabati bisognava andare a scuola con la gonna nera e la camicetta bianca e il pomeriggio bisognava partecipare alle adunanze con marce e fanfare al suono di faccetta nera e altre canzoni.
L’otto settembre del 43 ci fu l’armistizio e credevamo che la guerra fosse finita, invece i tedeschi che numerosi erano accampati anche nel nostro oliveto indispettiti dal nostro tradimento cominciarono a seminare il terrore, requisivano tutto ciò che tornava a loro utile, tagliarono tutte le nostre piante di ulivo per mimetizzare i loro mezzi e inoltre ci portavano la biancheria da lavare.Un soldato tedesco molto giovane che era venuto a ritirare la biancheria pulita, prima di andare via disse nel suo italiano gutturale e con gli occhi umidi: italiani guerra finita, ich sterben (morire).Gli alleati con le loro fortezze volanti tutti i giorni passavano sulle nostre teste e andavano a lasciare il loro carico di bombe su Benevento con lo scopo di colpire la ferrovia per ostacolare la ritirata dei tedeschi e così fu abbattuto il ponte di Vanvitelli sul fiume Calore e il Duomo da cui i tedeschi avevano già asportato la bellissima porta di bronzo.
Una notte al rombo degli aerei seguì una luce intensa e un fragore metallico, avevano lanciato uno spezzone incendiario che cadde a 100 m da casa nostra su un pagliaio dove si era rifugiata una piccola famiglia,la mamma rimase uccisa,mentre i due figlioletti e il papà rimasero indenni, alcune schegge colpirono i nostri vetri frantumandoli. Quando al mattino ci rendemmo conto di quello che era accaduto tutti ne fummo molto addolorati, fu molto triste veder portare via quella poveretta accompagnata al cimitero solo dal marito e dal sacerdote.
Poi finalmente arrivarono gli alleati e per noi significò ricominciare a vivere, ma la guerra non era finita i tedeschi si erano arroccati a Cassino e si sentivano ancora i colpi di cannone, dovette passare ancora del tempo prima che le armi fossero messe a tacere del tutto.